Sport e fascismo
set 5th, 2006 | By admin | Category: History Sport “Lo sport abitua gli uomini alla lotta in campo aperto”: così Mussolini concepiva il senso della pratica sportiva nel ventennio. E il fascismo si appropriò di palestre e campi di gioco usandoli come cassa di risonanza per “il prestigio internazionale del paese”, come strumento di consenso, ma anche come elemento educativo per preparare la “nazione in armi”. Dai successi della nazionale di calcio a quelli delle rappresentative olimpiche, gli atleti venivano trasformati in ambasciatori del regime.
Nel panorama degli studi sul fascismo, le indagini sullo sport e l’educazione fisica rientrano nell’ambito di quelle ricerche relative alla grande macchina messa in moto dal regime per l’organizzazione del consenso. Questo filone di studi, che ha assunto negli ultimi anni un peso e un’importanza sempre maggiori, se per alcuni settori, come la radio, il cinematografo, la stampa, la scuola, ha già dato risultati più che soddisfacenti, per altri necessita ancora di un notevole lavoro di scavo.
Per quel che concerne sport ed educazione fisica, una corretta impostazione del problema non può prescindere dalla distinzione tra i due momenti. E questo sia per ragioni tecnico-scientifiche (si tratta di discipline attigue ma diverse), sia perché non uniformi si presentano le nostre conoscenze sull’una e sull’altro nel corso del ventennio: più ampie sono infatti le indagini riguardo alle tematiche ideologiche, politiche e sociali connesse con l’educazione fisica, meno particolareggiate quelle sullo sport. Fino al primo conflitto mondiale non aveva compiuto grandi passi in Italia. Pochi impianti, poche strutture e, soprattutto, uno scarso livello di praticanti. Questo era dovuto essenzialmente allo stato di arretratezza economico- sociale in cui versava il nostro paese, ma anche, in parte, al quasi totale disinteresse su di esso mostrato dallo stato liberale. Tuttavia lo sport ufficiale si era già dato una sua fisionomia. Erano sorti il Coni (1906)e quasi tutte le federazioni (la prima, la Federazione ginnastica, risaliva addirittura al 1869) ed esisteva già un buon numero di giornali specializzati (la Gazzetta dello sport datava 1896). Con l’inizio degli anni Venti, in sintonia anche con quanto avveniva in altri paesi, lo sport segnò una fase di decisa crescita anche in Italia. Spingevano in questa direzione la razionalizzazione del tempo di lavoro e una generale evoluzione del costume e della socievolezza urbana. Il fascismo al potere si trovò, dunque, di fronte ad un fenomeno in grande ascesa e quasi completamente da ridefinire. Mussolini, che sportivo non era (si era al più entusiasmato per qualche incontro di boxe) intuì l’importanza del fenomeno per la grande capacità di mobilitazione di cui era capace e lasciò a Lando Ferretti, un ex redattore capo de la Gazzetta, il compito di tracciarne le coordinate. Seguace delle idee di Angelo Mosso (cui avrebbe dedicato un ritratto nel secondo dopoguerra), Ferretti si ispirava ad una linea cultural-sportiva che, tenendo sullo sfondo i “collegia iuvenum” di Augusto, la “Giocosa” di Vittorino da Feltre e i moderni colleges inglesi, vedeva nell’attività fisica un mezzo per migliorare l’abilità e la destrezza del corpo, temprandolo alle più ardue fatiche, in una proficua collaborazione con il mondo scientifico.
Vinte le resistenze dei cosiddetti “integralisti”, di coloro cioè che vagamente ispirandosi ad alcuni principi futuristi vedevano nello sport una forma di “esaltazione dello spirito combattivo del nuovo regime”, Ferretti opera in primo luogo una netta distinzione fra sport spettacolo e sport per tutti.
Riguardo al primo punto rinforzò l’autorità del Coni (di cui divenne presidente nel 25), favorì l’espansione delle federazioni e promosse una grande campagna di costruzione di nuovi impianti (piscine, campi da tennis, piste per l’atletica), In tal modo lo sport venne ad assumere in Italia, se in taluni casi non superò, le stesse caratteristiche dei paesi più avanzati, con la differenza che, mentre nelle liberaldemocrazie lo stato si limitava a favorire e coordinare gli impulsi e l’attività dei singoli, nei regimi totalitari come il fascismo quest’opera di promozione veniva direttamente dall’alto, sottendendo proprie specifiche finalità.
La nascita del tifo Soprattutto il calcio, che piaceva al fascismo per il suo carattere collettivo, che esaltava lo “spirito di squadra”, conobbe un’ascesa senza precedenti. Nel 1926 la Carta di Viareggio, che prese il nome della città nella quale fu emanata, nel disciplinare parecchi aspetti ancora poco definiti (organi di giustizia, status dei calciatori, organizzazione arbitrale) stabilì finalmente un campionato a girone unico, cui fu dato vita a partire dal 1929. Nel 1926, frattanto, era divenuto presidente della Federazione Leandro Arpinati, interventista e nazionalista, che profuse il suo grande attivismo in una notevole opera di modernizzazione. Nel decennio 1926-1937 si costruì un notevole numero di stadi, dei quali alcuni apprezzabili anche sotto l’aspetto architettonico, come il “Littorale” di Bologna (la città di Arpinati), il “Berta” di Firenze, quello di “San Siro” a Milano. Ma anche Torino, Napoli, Palermo e in pratica quasi tutte le più grandi città italiane furono dotate di impianti di notevole efficienza (alla fine degli anni Venti 83 capoluoghi di provincia su 94 possedevano proprie strutture). Ma soprattutto alla fine degli anni Venti, a dimostrazione di come il fascismo tendeva ad appropriarsi di fenomeni sovente insiti nello sviluppo stesso delle cose, il calcio conobbe due eventi per certi versi decisivi: la nascita del tifo, nel senso moderno del termine, e l’incontro con la grande industria.
Sul primo punto rimandiamo alle belle pagine contenute nella recente Storia sociale del calcio di Antonio Papa e Guido Panico; sul secondo basterà ricordare come Piero Pirelli fu per anni presidente del Milan Football Club, Borletti dell’Internazionale, Edoardo Agnelli della Juventus e l’elenco potrebbe continuare. Anche la pubblicità fece la sua massiccia apparizione negli stadi e l’immagine dei calciatori più popolari venne utilizzata per propagandare sia prodotti di largo consumo, come la brillantina, sia generi di lusso, come le automobili.
La “sportivizzazione” della nazione Il grande impegno profuso nell’organizzazione e nella diffusione dello sport portò, nel giro di pochi anni, a risultati davvero sorprendenti in diverse discipline, come le vittorie ai campionati del mondo di calcio del 1934 e del 1938, il secondo posto quanto a numero di medaglie all’Olimpiade di Los Angeles, i trionfi ciclistici di Bottecchia (che tuttavia era strenuo antifascista), Binda, Guerra, Bartali, i primati di Italo Balbo nelle trasvolate oceaniche, i successi nell’automobilismo, nel motociclismo e nella motonautica, discipline molto amate dal fascismo per il loro carattere di esaltazione della macchina e della velocità. Tutti risultati che il regime tentò ovviamente di sfruttare al meglio sia per dimostrare come in poco tempo l’Italia fosse assurta al ruolo di grande e temuta protagonista internazionale, sia per incrementare a dismisura spirito e orgoglio nazionale.
“Le prodezze sportive – dichiarava Mussolini – accrescono il prestigio della nazione e abituano gli uomini alla lotta in campo aperto, attraverso la quale si misura non soltanto la prestanza fisica, ma il vigore morale dei popoli”.
Tuttavia chi si è spinto a parlare di “sportivizzazione” della nazione nel corso del ventennio ha ingigantito di molto i termini della questione. Al di là, infatti, delle attività ricreative dopolavoristiche, sulle quali torneremo più avanti, nel 1930 i tesserati del Coni si aggiravano intorno alle 600.000 unità. Se si tiene conto che più della metà era costituita da cacciatori, si tratta di una media dello 0,75% dell’intera popolazione. Dieci anni più tardi si sarebbe appena giunti a toccare gli 800.000 iscritti. Ma anche gli incassi dello sport, se rapportati con quelli di altre attività spettacolari, risultano abbastanza modesti. Una statistica del 1938 relativa alle spese sostenute dagli italiani per assistere a spettacoli ci dice che il cinema primeggiava con 586,8 milioni di incassi, vale a dire il 70,6% dell’ammontare complessivo.Seguivano gli intrattenimenti (ballo, divertimenti popolari, fiere, circhi) con 105,5 milioni e il teatro con 102,2 milioni. Buon ultimo lo sport con 36,5 milioni, vale a dire poco più del 5% dell’intera spesa. Ma anche lo stesso spettacolo sportivo ci offre dati tutt’altro che omogenei. Un’inchiesta del 1936 – riportata da Ronchini e Triani nella Storia della società italiana curata dall’editore Teti – ci rileva infatti, da un lato “l’assoluto rilievo del calcio rispetto ad altre forme sportive”, con il 73,4% degli incassi totali; dall’altro il suo carattere eminentemente urbano (il 91,2% della spesa concentrata nelle città). Un terzo elemento di squilibrio ci viene dalla ripartizione geografica degli incassi per spettacoli sportivi: 64,9% al nord, 23,9% al centro, 11,2% al sud.
Decisamente più ragguardevoli i dati riguardanti lo sport praticato nelle sedi dell’Opera nazionale dopolavoro, l’istituzione di massa più rappresentativa del regime, creata appositamente per attirare i lavoratori più giovani. Nel 1935 l’Ond contava 11.159 sezioni genericamente definite “sportive” con oltre 1.400.000 praticanti e 4.704 sezioni propriamente dette “agonistiche” con 243.000 praticanti.
Tuttavia se si tiene conto dei contenuti, della qualità della partecipazione e, in molti casi, del tipo di attività (pesca, bocce, tiro alla fune, tamburello) anche in questo caso è difficile parlare di “nazione sportiva”, nulla togliendo ai grandi progressi comunque compiuti rispetto al passato.
L’uomo integrale Diverso il discorso per quanto riguarda l’educazione fisica che conobbe nel corso del ventennio un incremento davvero notevole, in quanto fortemente legata all’idea fascista di forgiare un carattere nuovo per gli italiani, temprato alle fatiche, alle asprezze e a ogni genere di avversità. Per “preparare i giovani fisicamente e moralmente in guisa da renderli degni della nuova norma di vita italiana” fu appositamente creata, nel 26, l’Opera nazionale balilla, che doveva “provvedere ad infondere nei giovani il sentimento della disciplina e dell’educazione militare, le istruzioni ginnico-sportive, l’educazione spirituale e culturale”. Al centro dell’insegnamento e dell’addestramento sovrastava ovviamente Mussolini, la cui figura, inarrivabile, poteva solo essere imitata, mentre la meticolosa coreografia dei saggi, delle sfilate, delle parate costituiva lo scenario nel quale si tentava di compiere l’autoesaltazione dell’unità morale e della vigoria fisica della “nazione nuova”.
A presiedere l’Onb fu chiamato un fascista della prima ora, il carrarese Renato Ricci, che si riprometteva di offrire, “al Duce e all’Italia, dei fascisti al cento per cento, duri di muscoli e ancor più duri di carattere, preparati nello spirito e nel corpo a tutti i cimenti”. Ricci, che aveva il culto dell’educazione fisica e della disciplina, per rendere autonomo e immediatamente operativo il nuovo organismo, punta in primo luogo all’edificazione di una grande rete di strutture (Case dei balilla, impianti di ogni tipo oltre al famoso “Foro Mussolini” o “Città dello sport”) utilizzando le forze giovani e più promettenti della architettura italiana, al punto che nel 1937 si contavano 890 case balilla, 1470 palestre, 2568 campi sportivi, 22 piscine. Per dare maggiore incisività all’insegnamento fondò inoltre l’Accademia fascista di educazione fisica e l’Accademia femminile fascista. Quando nel 1937 l’Onb, considerata con grande interesse anche in diversi paesi stranieri, fu soppressa e sostituita con la Gil (Gioventù italiana del Littorio) alle dirette dipendenze del segretario del partito, allora Starace, Ricci lasciava un’eredità davvero ragguardevole con i suoi 2.478.768 balilla; 2.130.530 piccole italiane; 960.118 avanguardisti; 483.145 giovani italiane. Un totale, cioè, di oltre 6.000.000 di iscritti, cifra comunque considerevole anche se l’iscrizione all’Onb era praticamente obbligatoria.
Con Gil il panorama non mutò di molto, salvo il tentativo, sulla spinta dell’esempio tedesco, di puntare con maggior determinazione sul carattere militaresco e guerriero dell’addestramento. “Noi miriamo a fare l’uomo integrale, il fascista” teneva a ribadire Bottai, aggiungendo che solamente da questo tipo di educazione del cittadino “si forma naturalmente il soldato consapevole della sua missione a tutela e gloria della Patria e del Regime”.
Tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti, al progettato “uomo nuovo” fascista non si arrivò mai. Qualcuno ha visto, alla base di questo insuccesso, la riprova dell’incapacità del regime a creare preparati quadri umanistici in grado di trasmetter nuovi insegnamenti e valori alle giovani generazioni (come afferma Renzo De Felice) ; altri vi hanno notato invece, ancora una volta, il prevalere su ogni altra considerazione del “moderatismo italiano”, di quel desiderio, cioè, “di quieto vivere” insito nella piccola borghesia italiana e che contraddistingue tutto il percorso storico.